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"La farfalla dalle ali spezzate" di Vittoria De Marco Veneziano
Introduzione di Glenn Doman,
Fondatore del "The Institutes for the Achievement of Human Potential" di Philadelphia
          Ecco la storia vera e toccante di una bambina cerebrolesa e di ciò che le è accaduto quando la sua famiglia ha deciso che valeva la pena lottare per darle una chance di stare meglio.
          Quando cominciammo il nostro lavoro più di cinquant’anni fa, non avevamo mai neppure sentito parlare anche solo di un singolo bambino cerebroleso che fosse mai guarito.
          Una volta imparato, dopo tanti anni in sala operatoria e in ospedale, quali bambini avevano veramente una lesione cerebrale e quali no, potemmo finalmente cominciare ad attaccare il problema direttamente alla base: il cervello leso.
          Scoprimmo che aveva ben poca importanza (se non dal punto di vista della ricerca) se la lesione si era verificata nel periodo prenatale, al momento della nascita o in seguito. Era come chiedersi se un bambino era stato investito de un’auto prima, dopo, o a mezzogiorno in punto. Ciò che contava era quale parte del suo cervello era rimasta danneggiata, e cosa potevamo fare per lui.
          Scoprimmo inoltre che aveva ben poca importanza se il cervello di per sé sano del bambino era rimasto danneggiato a causa dell’incompatibilità sanguigna dei genitori, o perché la madre aveva contratto una malattia infettiva come la rosolia durante i primi tre mesi di gravidanza, o se il cervello del bambino non aveva ricevuto una sufficiente ossigenazione nel periodo prenatale, o se il bambino era nato prematuro. Il danno cerebrale può anche essere la conseguenza di un travaglio prolungato, o della caduta a testa in giù di un bambino di due mesi con conseguente trombosi cerebrale, o di febbre alta con encefalite a tre anni, o dell’essere investiti da un’automobile a cinque anni d’età, o di uno qualunque di un’altro centinaio di possibili fattori.
          Di nuovo: se anche questo è significativo per la ricerca, è pur sempre come chiedersi se un bambino è stato investito da un’auto o colpito da un martello. Ciò che conta è quale parte del suo cervello è rimasta lesa, quanto, e che cosa contiamo di fare per guarirlo.
          In quei primi anni, nel mondo di chi si occupava di bambini cerebrolesi si riteneva che i problemi di questi bambini potessero essere risolti curando i sintomi che si manifestavano nelle orecchie, negli occhi, nel naso, nella bocca, nel torace, nelle spalle, nei gomiti, nei polsi, nelle dita, nelle anche, nelle ginocchia, nelle caviglie, e nei diti dei piedi. Una gran parte di quel mondo ancora la pensa così, perfino oggi.
          Un tale approccio non funzionava allora, ed era impossibile che funzionasse.
          Vista questa totale assenza di risultati, concludemmo che se volevamo risolvere i molteplici sintomi della lesione cerebrale, dovevamo attaccare quei problemi alla fonte, e concentrare i nostri sforzi sul cervello stesso.
          All’inizio sembrava che si trattasse di un’impresa impossibile o comunque di dimensioni monumentali; tuttavia, negli anni che seguirono noi come altri scoprimmo metodi chirurgici e non chirurgici per curare il cervello.
          Avevamo una semplice convinzione: che cercare di curare i sintomi di una malattia o di una lesione ed aspettarsi che la malattia o la lesione scomparissero non era medico, non era scientifico, e non era razionale. E se anche queste ragioni non fossero state sufficienti a farci allontanare da un tale approccio, rimaneva il fatto che nessun bambino cerebroleso curato in quel modo era mai guarito.
          Al contrario, eravamo convinti che se fossimo stati in grado di attaccare direttamente il problema, i sintomi sarebbero scomparsi spontaneamente nella stessa misura in cui avremmo avuto successo nel trattare la lesione nel cervello.
          Per fare una cosa del genere, dovevamo capire come il cervello di un bambino sano nasce, si sviluppa e matura. Studiammo attentamente diverse centinaia di bambini sani, da quelli appena nati a quelli più grandi. Li studiammo con grande attenzione.
          Man mano che apprendevamo che cos’è e cosa comporta la normale crescita cerebrale, cominciammo a scoprire che le attività più semplici e fondamentali dei bambini sani, come lo strisciare e il carponare, sono della più grande importanza per il cervello. Imparammo che se si impedisce ad un bambino sano di svolgere tali attività, per questioni culturali, ambientali o sociali, il potenziale di quel bambino viene grandemente limitato. Ed il potenziale dei bambini cerebrolesi ne risente ancora di più.
          Man mano che scoprivamo un numero sempre maggiore di modi per riprodurre queste fasi fisiche della crescita, cominciammo a vedere dei bambini cerebrolesi migliorare – anche di poco. Scoprimmo che i bambini cerebrolesi hanno un potenziale intellettivo enorme. Già nei primi anni sessanta avevamo centinaia di bambini cerebrolesi gravi di tre o quattro anni in grado di leggere, ed era evidente che adoravano farlo.
          Da tempo sostenevamo che un bambino, al contrario di quanto di solito si crede, può avere dieci neuroni morti nel cervello, e nessuno se ne renderebbe conto. Forse, dicevamo ancora, quel bambino potrebbe avere centinaia di neuroni morti, e noi non ne sapremmo nulla. Forse, dicevamo, perfino un migliaio.
          Ma mai, neppure nei nostri sogni più sfrenati, avremmo osato credere che un bambino potesse avere una lesione cerebrale grave e tuttavia svolgere delle funzioni bene quanto un bambino sano, e a volte addirittura meglio.
          Vorrei chiedere ora al lettore di seguire questo nostro ragionamento: per quanto tempo possiamo guardare Johnny, che ha una lesione cerebrale grave ma che svolge delle funzioni bene quanto Billy, che non è cerebroleso, prima che venga spontaneo domandarci: “che cosa c’è che non va in Billy?” Perché Billy, che ha un cervello che è due volte più sano di quello di Johnny, non ha delle funzioni almeno due volte migliori?
          Vedendo come questo si ripeteva con sempre maggior frequenza, cominciammo a guardare i bambini sani con occhi nuovi, con occhi scrutatori, e cominciammo a guardare i bambini cerebrolesi con ancor maggiore speranza.
          I bambini sani se la cavavano bene quanto avrebbero dovuto? Ecco un’altra importante domanda che non avremmo mai immaginato di porci.
          Nel frattempo, i membri del nostro gruppo che si dedicavano all’intervento non chirurgico stavano acquisendo una conoscenza sempre maggiore su come questi bambini crescono, e su come i loro cervelli si sviluppano. La nostra conoscenza della normalità aumentava, e i nostri semplici metodi per riprodurla stavano al passo. A quel punto cominciammo a vedere un piccolo numero di bambini cerebrolesi che raggiungevano il benessere tramite quei nostri metodi di cura che continuavano ad evolversi e migliorare.
          Presto cominciammo a vedere bambini cerebrolesi gravi che erano in grado di rivaleggiare con bambini che non avevano mai sofferto di una lesione cerebrale.
          Le tecniche miglioravano sempre di più, e cominciavano ad esserci dei bambini cerebrolesi che non solo avevano delle funzioni buone quanto quelle degli altri bambini, ma che in effetti non si potevano distinguere dai loro coetanei sani.
          Man mano che la nostra comprensione della crescita neurologica e della normalità assumeva maggior chiarezza ed i metodi per ripetere quel percorso normale si moltiplicavano, cominciammo addirittura a vedere alcuni bambini cerebrolesi le cui funzioni erano al di sopra della media, se non decisamente superiori.
          Questo ci emozionava oltre modo, e ci spaventava allo stesso tempo. Era infatti evidente che avevamo come minimo sottovalutato il potenziale di tutti i bambini.
          Ora che i bambini cerebrolesi davano risultati altrettanto buoni, se non migliori, di quelli dei bambini sani, era facile vedere quali possibilità avevamo per portare avanti quel percorso di crescita.
          Si era sempre dato per scontato che la crescita neurologica ed il suo risultato finale, l’abilità, fossero fattori statici ed irrevocabili: questo bambino era capace, quell’altro no. Questo bambino era intelligente, e quello no.
          Nulla poteva essere più lontano dalla realtà.
          Infatti la crescita neurologica, che è sempre stata considerata come statica ed irrevocabile, è invece un processo dinamico ed in continuo cambiamento.
          Nei bambini cerebrolesi il processo della crescita neurologica è completamente bloccato. Nei bambini affetti da “ritardo nello sviluppo” tale processo è significativamente rallentato. In un bambino sano, esso avviene ad una velocità media, e nel bambino superiore, la crescita neurologica avviene ad una velocità superiore alla media.
          Giungemmo alla conclusione che il bambino cerebroleso, quello nella media e quello superiore alla media non rappresentano tre tipi di bambini diversi, ma sono piuttosto esempi diversi di quella varietà di situazioni contigue che vanno dalla disorganizzazione neurologica estrema dovuta alla lesione cerebrale grave, alla disorganizzazione neurologica più moderata causata da una cerebrolesione leggera o moderata, all’organizzazione neurologica media mostrata da un bambino comune, al grado superiore di organizzazione neurologica che un bambino superiore finisce invariabilmente per dimostrare.
          Eravamo riusciti a riavviare quel processo che si era bloccato nel bambino cerebroleso, e ad accelerare quello nel bambino affetto da “ritardo nello sviluppo”.
          Era ormai chiaro che il processo di crescita neurologica poteva essere accelerato, non solo ritardato.
          E alla fin fine, chi erano le persone più adeguate ad accelerare quel processo e a salvare così il bambino cerebroleso?
          I genitori. I genitori sono la risposta, come vedrete in questo splendido libro.
Traduzione italiana di Alberto Nicolini.